Ricordi della mia vita a Pechino o la nostalgia di cose che ci hanno fatto del male

23 febbraio 2021

Il mio primo viaggio in Cina non è stato esattamente come me l’aspettavo. E la verità, la verità che non riesco pienamente ad accettare, è che non c’era, e tutt’ora non c’è, nulla di sbagliato in me. Quello che è davvero sbagliato e crudele è che c’è un tempo per ogni cosa e il mio tempo per quel viaggio, il primo viaggio che doveva segnare l’inizio di una vita diversa, non era quel luglio del 2013.

Sono partita con il cuore pesante come un macigno e non perché mi stessi lasciando dietro qualcosa. L’unica cosa che forse stavo davvero lasciando indietro era me stessa, una me incapace di ascoltarsi, di vivere la propria vita. Ero stata un fantasma fino ad allora, ma senza rendermene conto. 

Non mi è facile, quindi, raccontare della mia vita di allora, che sembra così diversa, così distante dalla mia vita, dalla me di adesso. Sono passati quasi 8 anni da quel luglio del 2013 e se c’è una cosa che ho imparato in questo tempo trascorso è che tutto sommato quel dolore mi è stato utile, il dolore degli ultimi 8 anni è servito a qualcosa. Sembra una banalità, una frase fatta per farci sentire in pace con noi stessi, per non lasciarsi andare alla disperazione del sapere che potevamo risparmiarci la sofferenza, che saremmo cresciuti sani e forti lo stesso, anzi, che forse saremmo stati addirittura persone migliori senza quella zavorra a rallentarci il passo.

Eppure è solo grazie a quel dolore che ho cominciato a scrivere, che ho imparato che i pensieri malsani che bivaccano nella nostra testa, è meglio esorcizzarli su carta, piuttosto che nasconderli sotto strati di inutili rassicurazioni, di immobilità, di “far finta che”.

Ho deciso di accettare di non essere sempre stata la persona che pensavo di essere, di non essere diventata forse la persona che da bambina pensavo di diventare. Ho deciso di perdonarmi e di ripartire da qui, senza cancellare nulla, anzi, ricordando e sentendo addirittura mancanza. Una sorta di nostalgia, di affetto per le cose che mi hanno fatto del male.

È un’afosa mattina di luglio a Venezia, ma mai tanto afosa come sarebbe stata la mattina del giorno seguente a Pechino. L’aria quasi irrespirabile, l’umidità che si attacca la pelle, il cielo grigio per via dello smog. Non è sempre nuvoloso a Pechino, ma il giorno in cui sotto atterrata all’aeroporto Internazionale di Pechino-Daxing lo era. Il cielo colore antracite, l’aria densa di fumo, una nebbia cancerogena carica di calore e di aspettative.

Trascorrerò 5 mesi presso la Capital Normal University di Pechino, 首都师范大学. È l’inizio del terzo anno di università e lo passerò in Cina per potenziare il livello di cinese, il putonghua, 普通话, la lingua parlata “comune”, il mandarino moderno. 

Le lezioni iniziano a settembre, ho quindi un mese di tempo per esplorare questo Paese, un Paese che è quasi un continente data l’estensione, una nazione tanto grande quanto diversa nelle sue mille sfaccettature. Dagli inverni rigidi dello Shangdong al clima tropicale del Guangdong, dai grattaceli di Shanghai alle steppe della Mongolia Interna. Dai campi di sorgo alle foreste verdeggianti, dal cibo ricco di carne e patate al riso e al pesce. Ogni cosa cambia e rimane la stessa da una regione all’altra. 

Trascorro i primi giorni in un ostello all’interno degli hutong, 胡同, le antiche vie della città dove si respira la Cina autentica, quella vera, dagli odori forti, una lingua incomprensibile, i muri antichi, rovinati, la Cina non edulcorata dai grattacieli e gli shopping mall. 

Hutong
Hutong

La prima sensazione che ricordo di aver provato è stato un senso di soffocamento: il jet lag, il caldo afoso, l’ostello minuscolo, i bagagli troppo pesanti, gli odori forti, la mia ansia che mi stringeva il collo e non mi faceva respirare.

Wangfujing Street è la strada principale del centro di Pechino, moderna, piena di negozi di souvenir, di brand di moda, fast food, ristoranti, persone che camminano impegnate nelle loro mille faccende. Ad un certo punto da un vicolo laterale si giunge alla Wangfujing Night Snack Street, una via zeppa di bancarelle di street food, una strada stretta e soffocante, o forse è la mia percezione dettata dai ricordi di una strada affollatissima, piena di corpi umani che si accalcano, che mangiano, urlano, ogni molecola di ossigeno pregna di odore di cibo, di fumo, di calore.

Ricordo un senso di svenimento, sbatto contro questa realtà così viva, luccicante, la brillantezza del cibo, delle luci delle lanterne rosse, la quantità di nuove sensazioni che arrivano ai miei sensi sono eccessive, tutto è così forte e intenso, ogni profumo un colpo allo stomaco, agli occhi, la mia nevrosi pronta ad esplodere.

Vedo i famosissimi insetti offerti ai turisti come souvenir, un cibo esotico che di autentico ha poco o nulla, ma che offre l’opportunità di dare un morso al proibito, di dimostrarsi coraggiosi per un nonnulla, di farsi scattare una foto mentre si addenta questo spiedino di carne di insetto, l’aria tronfia, la bocca sorridente, la possibilità di vantarsi con gli amici una volta tornati “alla civiltà”.

Mangio uno scorpione fritto, ma la verità è che non mi sento più coraggiosa, forse avrei dovuto tentare con un ragno o una larva. Forse ho sbagliato totem, forse avrei dovuto mangiare il cuore di un animale più forte, più possente per ereditarne le qualità, come nei riti di antiche tribù.

Forse il mio totem è davvero lo scorpione, piccolo, ma letale, come l’ansia che mi divora e che quella sera non mi fa respirare.

Wangfujing Night Snack Street
Wangfujing Night Snack Street
Wangfujing Night Snack Street
Wangfujing Night Snack Street

Nei giorni seguenti visito alcune delle attrazioni principali di Pechino, ma senza troppa fretta, ho 5 mesi davanti a me in cui dedicarmi alla città non come turista, ma abitante della capitale. Sono una laowai, 老外, una straniera, nel gergo informale che utilizzano i cinesi per definire gli occidentali.

In quelle settimane di agosto del 2013 visito Xi’An, la città nella provincia dello Shanxii famosa per l’esercito di terracotta, caldissima, cocente. La fila per l’autobus sotto un sole implacabile, la folla che si accalca per ammirare una delle attrazioni più famose di tutto il Paese.

Da Xi’An prendiamo un aereo per Shanghai. “È possibile che il calore sia ancora più intenso?” mi domando, passo giorni chiusa in ostello per colpa di un potente raffreddore causato dagli sbalzi termici tra le strade dall’asfalto bollente e l’interno governato dai condizionatori a tutta potenza.

A 30 minuti da Shanghai, c’è Suzhou, una cittadina piccola caratterizzata da corsi d’acqua e dai giardini verdeggianti, una piccola Venezia cinese, la cui calma mi contagia, almeno per qualche giorno fino al ritorno nella capitale poco prima dell’inizio delle lezioni.

Trascorro la maggior parte del mio tempo con la testa affondata sui libri, impegnata a decifrare tutti quei caratteri uno diverso dall’altro, dove ogni piccolo segno dona un significato diverso al carattere che poi andrà a formare una parola che darà vita a una frase, a un significato, a un’idea. Ideogrammi, simboli, lettere, nessun alfabeto di riferimento. 4 toni che cerco di imitare come un pappagallo che ascolta un gatto e cerca di riprodurne i miagolii. Nonostante la difficoltà, il cinese mi piace, mi appassiona, finalmente posso metterlo in pratica, posso dare un senso ai due anni passati sui libri, china sulla scrivania impegnata a ricopiare caratteri cinesi per pagine e pagine.

Ricordo uno dei primi piatti assaggiati in un minuscolo locale poco distante dall’università: i baozi, 包子, panini al vapore ripieni di carne, poco comuni nel nostro Occidente rispetto ai jaozi, 饺子, i ravioli. Ricordo la mensa scolastica, il riso con il pollo alla gongbao, 宫保鸡丁, con salsa agrodolce, arachidi e cetrioli e poi ancora il riso con uova e pomodoro e il riso con patate e carne di manzo. Una dieta molto statica la mia, ogni cosa nuova mi destabilizza in quel periodo, ogni nuova sensazione una prova per il mio equilibrio già così precario. Mi dedico con assiduità allo studio, un’isola sicura e senza sorprese che non rischia di ferirmi al contrario del mondo esterno.

Nonostante le mie paure, trovo il modo di conoscere abbastanza bene la città che mi ha ospitato per quei 5 mesi della mia vita. Mi aggiro tra gli immensi palazzi della Città Proibita, 紫禁城, Piazza Tian’an’men, 天安门广场, il Tempio del Cielo, 天坛, attraverso su una piccola barca il lago del Palazzo d’Estate al tramonto, 颐和园, addento i dolcissimi bingtanghulu, 冰糖葫芦 , gli spiedini di frutta candita, mangio l’hot pot, la cosiddetta fonduta alla mongola, 火锅 e l’anatra laccata alla pechinese, 烤鸭.

Salgo due volte sulla Grande Muraglia, la prima volta nella sezione più turistica, Badaling, 八达岭, zeppa di turisti, la seconda nella sezione meno conosciuta e più difficilmente raggiungibile, la più selvaggia Mutianyu 慕田峪, dove i colori dell’autunno mi colgono impreparata di fronte a tanta bellezza.

La Città Proibita
La Città Proibita
La Città Proibita
La Città Proibita
La Grande Muraglia
La Grande Muraglia
La Grande Muraglia
La Grande Muraglia

Mangio coreano nel quartiere di Wudaokou 五道口, faccio shopping negli immensi centri commerciali di Xidan, 西单, contratto il prezzo al mercato della seta e nel mercato meno frequentato di Yashou a Sanlitun, 三里屯, il quartiere più occidentalizzato della capitale. Passo interi pomeriggi seduta per terra tra gli scaffali della Wangfujing bookstore 王府井书店, a leggere libri fino a non sentirmi più le gambe.

Conosco una studentessa cinese, ci insegnano a vicenda l’inglese e il putonghua. Mi porta a vedere il suo dormitorio, ben diverso dalla modernissima ala riservata agli studenti stranieri. Stanze con letti a castello, almeno 6 per stanza, pieni zeppi di vestiti, libri, oggetti personali, senza condizionatore. Mi rendo conto più che mai del bozzolo protettivo di cui siamo vittime noi stranieri quando ci rechiamo in questi paesi, così avanzati eppure ancora distanti dai nostri standard. 

Arriviamo con la nostra mentalità da ricchi occidentali, abituati alle comodità, con l’idea di passare qualche settimana in un posto scomodo, ma così “tipico”, così “local”. Mangiamo il cibo del posto, ma sogniamo la pizza che troveremo al nostro ritorno, non ci stupiamo della mancanza di pulizia, della scortesia dei camerieri, dei prezzi così bassi, è tutto così diverso, affascinante, romantico. E lo è davvero fino a quando non ti scontri con la realtà del giorno dopo giorno, delle settimane e dei mesi che si susseguono, tutti diversi, ma dopo un po’ tutti uguali.

E allora il cibo ti sembra troppo saporito, il clima troppo caldo o troppo freddo, il traffico insopportabile, la lingua indecifrabile, la stanchezza dirompente, la mancanza una lama alla gola, la nostalgia un bagno freddo di realtà.

Eppure, provo davvero nostalgia per quel periodo della mia vita, così deleterio, eppure così fondamentale. Il fatto è che all’epoca la mia nostalgia non era esattamente una nostalgia di casa. Mi mancavano i miei genitori, la mia stanza, il cibo, ma non era quella la nostalgia che mi teneva sveglia la notte e che mi faceva piangere in mezzo alla strada. Era una nostalgia per un presente che non stavo vivendo, era paura della mia stessa ombra, terrore della mia impotenza, di ciò che avrei potuto fare, di ciò che avrei potuto essere se quella paura si fosse trasformata in disperazione, o peggio, in autodistruzione.

Col tempo ho imparato a convivere con questi aspetti della mia ansia, consapevole che ho ancora molta strada davanti a me. Forse troppa. Consapevole che non sono più la ragazzina piena di timore, partita con una valigia più grande di lei, gli ansiolitici nello zaino, delle occhiaie spaventose e un cuore colmo di rimpianti. Voglio credere di essere in grado i prendermi cura di quella ragazzina, come fosse una sorella minore bisognosa di attenzioni.

Anche Pechino è vittima del cambio delle stagioni. Dopo l’autunno arriva l’inverno e l’inverno nella capitale è gelido, il vento sfregia il volto incurante delle proteste di chi non è abituato. Le notti si fanno sempre più lunghe, la luce viene risucchiata in un vortice di gelo.

Mi appresto a tornare in Italia, giusto in tempo per festeggiare il Natale.  Salgo sull’aereo con una valigia pesante e un cuore leggero, contenta di tornare alla mia quotidianità, senza sapere che quella contentezza sarebbe stata una fuggevole illusione e che dopo meno di 2 anni sarei tornata in quel paese che mi ha vista scappare con la coda tra le gambe, che mi avrebbe accolta in un altro posto, un altro clima, persino un’altra lingua. E io sarei partita con la stessa paura, gli stessi ansiolitici nello zaino, la stessa valigia pesante, eppure io totalmente diversa, nuova, ma con un’anima invecchiata.

Quel viaggio in Cina nel 2013 era solo l’inizio e non lo sapevo. Io e la Cina non avevamo finito, la nostra storia era appena iniziata. E la verità è che non vedo l’ora di scrivere i prossimi capitoli.


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Elisabetta Marini

SMM and Content Creator, part-time mermaid, hopeless writer
Lover of whales, anatomical hearts and Sylvia Plath
Based in Italy

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